“Noi volontari non siamo supereroi”. Intervista ad Angelo Morsellino, tra campi profughi e i bimbi dell’oncologia pediatrica
Di Serena Li Calzi
Quando guardiamo l’orizzonte ci lasciamo trasportare dall’immagine poetica che arriva alla nostra mente. Non pensiamo ad una ‘minaccia esterna’, non ci sentiamo ‘invasi’ ma restiamo incantati dalla bellezza del mondo e sogniamo di attraversarlo.
Ognuno di noi dovrebbe avere la possibilità di guardare l’orizzonte e sognare. Eppure, per alcuni, questa possibilità non può essere accessibile a tutti, come se l’essere umano sia diviso per razze, culture, tradizioni e che qualsiasi cosa accada nel mondo, non ci appartenga. Esistono però persone che ogni giorno scelgono di non voltare la faccia dall’altra parte, convinte che quel sogno nel cuore deve essere un diritto di tutti.
Angelo Morsellino è un giovanissimo ragazzo campano, nato e cresciuto a Volla che ha deciso di muovere dei passi concreti verso il senso più profondo della vita. In questa intervista ci spiega come la sua esistenza sia cambiata.
Sei molto giovane, potremmo partire col chiederti quando e com’è nato questo tuo desiderio di dedicare parte del tuo tempo agli altri.
Ho 24 anni ma penso di aver sempre avuto dentro il desiderio di aiutare chi è in difficoltà. Mamma mi racconta che alle elementari ho spronato per anni una bambina con forti problemi relazionali a fare amicizia col resto della classe, fino a riuscirci. “L’ha aiutata più suo figlio che il suo psicologo” dicevano di continuo le maestre a mia madre. Ho vissuto in una famiglia che si è fatta sempre carico dei problemi altrui, vicini e lontani, che ha messo sempre al primo posto i parenti, gli amici, il prossimo, dividendo quello che avevamo, anche quando non era tanto. Quindi non so dire di preciso quando sia nato questo desiderio di aiutare gli altri; ad un certo punto, crescendo, l’ho fatto in maniera più consapevole e attiva, anche in seguito a dei problemi di salute familiari che ci hanno fatto toccare ancora più da vicino la sofferenza e di conseguenza ci hanno fatto scoprire quanto sia indispensabile sentire di non essere soli.
Il tema “rifugiati” è sempre attuale e molto delicato. Ci puoi raccontare la tua esperienza in merito a questo argomento?
Ho letteralmente scoperto che c’erano persone che morivano in mare, nella speranza di salvarsi la vita, nel settembre del 2015. Era una situazione che andava già avanti da anni ma che mi è piombata davanti, come uno schiaffo in faccia, quando è stata pubblicata la foto di Alan Kurdi, il bimbo siriano di 3 anni annegato e steso a pancia in giù sulla spiaggia. Così ho cominciato ad informarmi e a prepararmi. Mi sono chiesto dove finissero i bambini come Alan che non morivano in mare. Ho scoperto che diventavano rifugiati, ospitati in hotspot provvisori in Europa, in cui i diritti umani sono calpestati del tutto. Ci ho messo due anni per capire che non aveva senso restare a guardare. Così sono entrato a far parte di Stay Human, una Onlus che si occupa di missioni umanitarie proprio in questi campi profughi, per portare aiuti. La mia prima partenza è stata ad agosto 2018 e mi ha cambiato la vita. Ci siamo trovati davanti bambini con una bottiglietta d’acqua al giorno, che non bastava mai per fronteggiare i 40 gradi delle tende o dei container in cui vivono; ho conosciuto padri che erano disperati per non avere latte o pannolini per i propri figli; ho incontrato madri che li avevano persi in mare, i bambini. Poi sono tornato a casa e un altro pugno nello stomaco l’ho avuto rientrando in casa mia, così grande, col frigo pieno e nel bagno la marca di shampoo da poter scegliere. È stata dura, però poi ho capito che piuttosto che condannare “questa” realtà, dobbiamo denunciare “quella”, affinché cambi e gli organismi internazionali si attivino per salvare queste persone.
Cosa ti senti di dire a chi punta il dito contro ‘l’extra-comunitario’ come minaccia di questi tempi?
Purtroppo la politica dell’odio di questi tempi sta facendo spaventare molte persone e le sta convincendo che gli stranieri siano un pericolo. Le rassicura addirittura che sia meglio lasciarli morire in mare, piuttosto che minacciare la sicurezza dei nostri confini. Io conosco queste persone, l’unica cosa che vogliono è salvarsi. Altro mito che sfaterei è quello dei musulmani, non tutti sono estremisti come pensano gli italiani; ho conosciuto tante donne rispettate dai mariti, libere di esprimersi e di dare la propria opinione, figli amati anche senza seguire la religione dei genitori. Semplicemente perché sono persone, con pregi e difetti uguali agli altri. Così come ho conosciuto donne cristiane picchiate dai mariti. È il fanatismo il problema, non la religione. Il livello di ospitalità dei mediorientali è paragonabile solo a quello dei napoletani: ricorderò sempre di una donna siriana che ci ospitò nella sua tenda e ci mise davanti l’unico bicchiere e l’unica bottiglia d’acqua che aveva quel giorno, e quando fingemmo di non avere sete pur di lasciargliela, ci disse che si sarebbe offesa se non avessimo accettato quel poco che poteva offrirci. Io non vedo l’ora di ripartire, sto già facendo il conto alla rovescia. L’incontro con culture diverse genera bellezza e veramente arricchisce entrambe le parti.
Sei anche volontario presso AGOP Napoli. Come vivi questa esperienza così forte a contatto con i bambini in Ospedale?
I bambini e i ragazzi dell’oncologia pediatrica sono dei veri guerrieri. Non posso che imparare tanto da loro. Si diventa una grande famiglia, si piange tanto ma si ride anche tanto e la cosa importante è che lo si fa insieme. I volontari dell’associazione fanno tutti un grande lavoro per offrire ogni giorno, a turno, supporto e distrazioni ai pazienti e alle famiglie. Giochiamo, disegniamo, cantiamo, guardiamo film, studiamo, insomma cerchiamo di mandare avanti la vita anche dentro l’ospedale, piuttosto che metterla in standby a causa delle terapie. Non è semplice accogliere gli effetti collaterali delle chemioterapie (e menomale che questi farmaci esistano), però quando escono da quel reparto avranno sempre una marcia in più nella vita. E permettono anche a noi di averla. Durante le missioni umanitarie mi videochiamano di continuo, chiedendomi quando torno e dicendomi che gli manco. Loro sono uno dei motivi per tornare a casa.
Come ti hanno cambiato tutte queste forti esperienze che vivi quotidianamente?
Credo che mi facciano apprezzare appieno la vita, mi diano il privilegio di guardarla ogni giorno con occhi nuovi. Posso provare il bello di stupirmi di continuo di fronte a cose che per altri possono sembrare banali o scontate. E invece troppo spesso non apprezziamo quello che abbiamo. Siamo così ciechi da sentirci infelici e non vedere quanto sia bella la vita. Nonostante le cadute e i graffi. Sicuramente è un gran casino riuscire a conciliare il lavoro, l’università, gli amici, i rifugiati e i bimbi dell’ospedale ma sono contento di non perdermi niente e se sacrificare qualche ora di sonno può servire a dare sollievo a chi soffre, anche se ho dovuto rallentare gli studi e il lavoro, mi sento comunque più ricco di chi fa solo dei soldi la sua ragione di vita.
Cosa ti senti di dire alle persone che leggeranno questa intervista?
Non pensate che i volontari siano supereroi, siamo persone comuni, con sogni, progetti e impegni come tutti gli altri. È dovere di ogni essere umano dedicare anche solo un po’ di tempo ad aiutare chi ne ha bisogno. Quando sento pensieri come “Mi fate ritrovare fiducia nell’umanità” mi viene istintivo ricordargli che anche loro sono parte dell’umanità, anche loro possono contribuire a renderla migliore. C’è una frase famosa che mi piace un sacco: “Chi nel cammino della vita ha acceso anche soltanto una fiaccola nell’ora buia di qualcuno non è vissuto invano.” Scoprite quanto è bella la vita.
Ho conosciuto Angelo appena ventenne, eravamo una squadra che,con associazioni diverse, si dedicava per un anno ad un progetto educativo rivolto ai ragazzi dei Quartieri Spagnoli, notevole la sua competenza nell approccio e nella comunicazione, la disponibilità, la pazienza e la familiarità che lo rende simpatico a tutti. Per me persona